mercoledì 24 aprile 2013

700 caffè nel cassetto (e una fune da equilibrista).

Cari amici, lettori, o semplici passanti,

il 16 aprile c'è stato l'anniversario della 700 esima copia de "Il caffè". Ebbene sì, 700 numeri, che per un settimanale indipendente non sono pochi. Sono contenta davvero di aver partecipato alla realizzazione di più di 70 di queste copie, negli ultimi due anni e più. E' stato anche bello conoscere parte dei collaboratori che con passione hanno scritto e commentato in questi anni, i problemi e gli eventi di Caserta, comuni limitrofi e non solo.

Sono ancora più contenta di aver potuto realizzare una rubrica che parlasse di tematiche che ho a cuore, dell'informazione e della sua evoluzione, nel tempo del giornalismo online e dei social network.
Parlare del web sulla carta stampata, riprendere le news, analizzare le tendenze, raccontare gli scontri, le possibilità. Una sfida.

Ma per questo numero così importante ho voluto parlare di altro, ho voluto parlare di quello che va oltre l'essere una neo-giornalista pubblicista, ma una "ragazza casertana" come tante/i.

Vi lascio la mia riflessione.



Stralci da un (ipotetico) romanzo precario.
E’ il settecentesimo numero de Il caffè, un giornale storico per Caserta, che io non conoscevo fino a pochi anni fa. Perché non vivere a Caserta ma poco più in là in provincia, già può far sentire un giovane o un adolescente un po’ “fuori dal coro”. Ora che sono due anni che collaboro con Il caffè e lavoro in zona, ho potuto in parte riscoprire il desiderio di tener salde le mie radici, di conoscere la mia città, la gente che la abita, le sue abitudini, la sua “movida”.
Da pendolare ogni giorno in trasferta verso Napoli, avevo smarrito un certo senso di appartenenza. Sognavo le grandi città, le metropoli, un lavoro da “radical chic”. Poi ho capito col tempo che professione e mestiere non sono mondi così lontani, che talvolta fare un lavoro nel migliore dei modi e con passione, comporta “sporcarsi la mani”. Ancora lotto con la voglia di restare qui e fare ciò che mi piace  e la consapevolezza che è davvero difficile. Manca ancora qualche anno ai 30, ma parte del coraggio, dell’ottimismo, della voglia di fare e dell’entusiasmo, che contraddistinguono una giovane che sa di avere ancora la vita davanti, è andata persa.
Sapere che la tua terra può offrirti poco, fa male. E’ un continuo annaspare, arrangiarsi, cercare lavori affini alle proprie competenze provando a non snaturarsi, a darsi un valore, oltre che mostrarlo agli altri.
Anni di studio non bastano, se non hai quella scaltrezza mentale, quella caparbietà, quella capacità di imparare-facendo, che può salvare il tuo futuro. Poi, anche per i più volenterosi, una parola si insinua bastarda nelle loro vite, dileguando ogni anelito di sogno, ogni passione, ogni desiderio. Diventa una condizione, smette di essere un “periodo di passaggio”, ma assume la forma di un’ombra che insistentemente ti segue ad ogni tuo passo. Ti senti spacciato, quando lì nell’angolo provi a liberartene.
E’ il precariato.
I tuoi amici che hanno un lavoro qui, o che ancora studiano, o che sono emigrati altrove, ti fanno notare la tua mancanza di coraggio nel non prendere un treno e partire, ti fanno notare che “Milano è un’altra cosa” che devi andare a Nord di Roma se vuoi un lavoro. Ma oggi, chi è che non lo sa? Chi non ne è, almeno in parte, cosciente?
E allora ti convinci che l’idea generale sia che il problema non va affrontato, ma ci vadano messe le toppe. E’ quello che siamo abituati a fare qui, a Sud dello stivale. Pian piano però, toppa su toppa, la maglia perde le sue sembianze, e diventa un obbrobrio. E anche il posto più dolce, più caro e pregno di ricordi, di vita vissuta e speranze disperse, ora non piace più a nessuno.
La paura è la spina nel fianco degli audaci, è come il “se” e il “ma” che si insinuano nei forti. Perché scappare non è sempre segno di coraggio, ma talvolta l’ultima soluzione, la sola possibilità. Restare, invece, può essere un grande atto di amore per la propria Terra, per una parte di sé, ma una dolorosa catena al piede.
Così sei frantumato, diviso, lacerato, frastornato.
Il giovane del sud, mi permetto di insinuare, così come il giovane casertano, vive i suoi migliori anni con questi pensieri e queste voluttà. In attesa di qualcosa che gli cambi la vita, che lo aiuti capire, che lo faccia sentire parte del Tutto. Non un banale elemento di un ingranaggio anonimo, ma un pezzo di un puzzle, un mattoncino della Lego in grado di creare qualcosa di buono, di concreto, di solido.
Costruire mondi in sintonia con se stessi o  immaginare futuri plausibili sentendosene già parte, sono banali vagheggiamenti di chi, a 16-17 anni, già sa che deve fare non la propria scelta vera e ponderata, rispetto a se stesso, ma quella utile. E se non fa quella utile, si porterà dietro il peso e la responsabilità di questo “errore” per tutta la vita. Un macigno che deteriora, che scalfisce, che s’insinua nella quotidianità e diventa parte di te.
Così quel leggero magone diventa nostalgica malinconia, il dubbio del “poteva essere”, “potevo fare”, “dovevo dire”, “dovevo andare”. E non campi più. O forse sì, campi pure. Ma non sei più la stessa persona, resti solo un ingranaggio di quel sistema che hai provato a cambiare, a fare tuo, a interpretare.
Ma non è stato così, e ora è tardi. Ora è il momento di agire.
Luisa Ferrara