mercoledì 28 novembre 2012

La striscia di Gaza e la battaglia virtuale.

Da Il caffè del 23 novembre 2011.


Sono giorni d’inferno per la striscia di Gaza, da quando il conflitto si è riacceso.
Salgono a 164, di cui 43 bambini, le vittime palestinesi nei raid israeliani su Gaza, terminati ieri sera.
5 i morti israeliani, soltanto 5 verrebbe da dire, come se fosse bello fare un confronto tra “morti”.
Oggi, 22 novembre, sembra sia arrivata la tregua, anche se non si sa quanto davvero possa durare e quanto sia stabile. In poche ore tutto può ribaltarsi, tutto cambia, tutto scoppia. Così è la guerra.
Su Twitter c’è un susseguirsi di messaggi speranzosi: “La tregua regge” oppure “Gaza, notte tranquilla, tornata la calma nella Striscia”. Ma l’ansia per il pericolo di una ripresa da parte del governo israeliano nel bombardare i palestinesi non passa.
Una delle notizie più commentate è la foto di un bambino con una pistola tra fuochi d’artificio e raffiche di spari durante i festeggiamenti palestinesi per l’interruzione dei raid.


Dure le critiche all’esercito israeliano: “L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato del mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore.”
Ma non ci sono solo commenti degli utenti da tutto il mondo, che esprimono paura e sentimenti contrastanti, oltre che ragioni opposte, ma anche tweet ufficiali da parte di ambedue le fazioni, l’esercito israeliano e Hamas. Stavolta sembra che questa guerra non sia fatta solo missili e di bombe. Il conflitto è passato sui social network da quando l'esercito israeliano ha scelto Twitter per rendere note le sue operazioni militari, e anche le brigate di Hamas utilizzano i tweet per informare su obiettivi e vittime.
Al Jazeera racconta di una guerra a colpi di “hastag” per controllare la narrazione del conflitto sui social. E quello che sembra un mondo lontano, diventa così vicino a noi che abbiamo difficoltà a comprendere come siano cambiati i tempi, e come tutto da decenni in fondo sia fermo.


Una guerra scritta in inglese, seguita dal mondo, virtuale oltre che reale. Che diventa guerra di immagini, tra foto struggenti di bambini ammazzati, di cui è difficile distinguere la “nazionalità”. Un conflitto infinito, che non sembra trovare soluzione, per il quale non si trovano le responsabilità.
O forse non si vogliono ammettere.

Luisa Ferrara


domenica 25 novembre 2012

25 novembre 2012




Io voglio parlare di un altro tipo di violenza, quella che le donne fanno alle altre donne.

La violenza psicologica di chi impone schemi in cui rientrare per essere “donna”, prescrive “buona maniere”, stili di vita, ruoli.
La violenza di chi ti dice cosa è giusto dire, fare, e come farlo. Di chi vuole che si rimanga uguali a se stesse, perché è più comodo così.

Una società in cui sono le donne a giudicare le donne, a renderle deboli e vulnerabili quando non rientrano nel concetto di “donna” che tutta la società si aspetta.

Donna madre, donna femmina, donna delicata, donna curata, donna impeccabile in tutti questi ruoli.

Si può andare aldilà dei concetti di matriarcato o patriarcato, di sessista, femminista e maschilista?

Mi piacerebbe che per un giorno si andasse oltre certi paradigmi mentali che aiutano poco a capire la realtà che evolve veloce sotto i nostri occhi.

Le donne che oggi vogliono essere diverse, minacciano la morale comune e sconvolgono modelli precostituiti, mettendo in crisi un intero sistema. 

Questo fa paura, fa paura a tutti. Non solo agli uomini.

Se l’uomo picchia e ammazza per riaffermare il suo potere, che lentamente si sta erodendo, lo fa per paura, una paura che lo porta a sopraffare l’altro. 

Bisogna andare a fondo, e capire dove nasce questa paura. Perché si ha paura di un modello di donna che forse è cambiato, e non lo si vuole accettare.

E questo devono cominciare a farlo le donne stesse, interrogandosi quotidianamente su cosa sono e cosa vogliono essere. 

Le stesse donne che finalmente devo sentirsi libere nel profondo di essere ciò che sono davvero, aldilà delle aspettative del mondo intero che hanno intorno. 

Libere secondo i propri valori e i propri credi, che devono essere frutto di scelte consapevoli e personali.

E’ difficile, forse non basta una vita, ma perché non provarci?

Io non ho paura solo delle botte, ho paura anche di tutti quei segni che restano dentro a vita, di tutto quello che questo mondo mi fa scontare ogni giorno, solo per il fatto che sono donna. 


martedì 20 novembre 2012

L'Italia dei soldati blu.

Da Il caffè del 16 novembre 2012.


Soltanto la settimana scorsa si  è parlato della Grecia e delle proteste contro le misure di austerity varate dalla troika. Ci si è chiesti quando anche in Italia arriverà il momento di protestare, uniti oltre che arrabbiati o disperati.
Sembra che il momento in parte sia arrivato, il 14 novembre è stato ribattezzato “giornata di proteste in tutta Europa”, l’Italia è stata invasa da cortei di studenti, operai, sindacati, precari della scuola e non solo.
Si sono verificati anche episodi di violenza, ma la maggioranza delle persone, come sempre, ha manifestato in maniera pacifica.
Si sono viste forse troppe manganellate da parte della Polizia, in tv ma soprattutto nei video e nelle foto amatoriali girate da parte dei manifestanti e finite immediatamente online. Botte da parte della Polizia spesso anche gratuite, come già nel nostro Paese è accaduto in passato. Scene di guerriglia urbana tra manifestanti che gettano pietre o tentano di forzare cordoni di sicurezza, e poliziotti che, protetti da tute e caschi, non sempre sono in grado di controllare la propria forza, o più semplicemente hanno ricevuto l’ordine “di agire”. Il come non è da sapere, come fu per il G8 di Genova nel 2001.
Facebook è tempestato di immagini e foto di teste spaccate e bocche sanguinanti provenienti da tutta Europa, tra cui persino quella di un ragazzino minorenne manganellato alla testa in Spagna, che ha fatto molto scalpore. Immagini da Roma, Torino, Bologna, Genova, Bari, Firenze, Napoli, Milano, Palermo e tante altre città, di piazze piene e cortei, ma anche video e foto di manganellate date a caso che fanno un po’ rabbrividire.
Colpisce molto la foto di un poliziotto che aggredisce con un manganello un giovane alle spalle mentre cammina, percuotendolo alla testa, e un’altra in cui un giovane è immobilizzato a terra da due poliziotti e un terzo lo colpisce in viso.
I feriti, però, non ci sono stati solo tra i manifestanti, ma anche tra le forze dell’ordine, tant’è che il Ministro Cancellieri ha espresso solidarietà alla Polizia, affermando: “Le foto facciamole vedere tutte”.
Ovviamente quest’esternazione ha suscitato un bel po’ di polemiche, soprattutto tra chi pensa che tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica non corrisponda a picchiare indiscriminatamente.
Un commento lasciato da una utente sulla pagina Facebook di Agora Vox Italia, sintetizza al meglio la situazione: “Vorrei chiedere al Ministro se è legittimo mettere sullo stesso piano i comportamenti di un individuo, magari violento ribelle esagitato (ammettiamolo pure anche se non è certo), con quelli di un agente delle forze dell'ordine, della Polizia di Stato, in servizio! Ho grande rispetto per le istituzioni, da sempre, ma come cittadina esigo da esse un comportamento ineccepibile in conformità con le regole di un paese democratico.”
Se è bene far vedere tutte le foto, è anche bene che i poliziotti abbiano caschi numerati per essere identificati. Non è possibile agire in maniera così anonima, senza alcun limite nell’esercitare “controllo” attraverso armi pericolose come manganelli o lacrimogeni. Chissà cosa ne pensa il Ministro Cancellieri.
Luisa Ferrara

martedì 13 novembre 2012

Grecia: le proteste che forse in Italia non avremo mai.

Da Il caffè del 9 novembre 2012

http://it.ibtimes.com/

Giorni di fuoco per la Grecia che protesta in piazza contro le nuove stringenti misure di austerità varate dalla Troika. Bruxelles chiede leggi che sistemino i conti pubblici e il Governo prova a rispondere. Ma la popolazione vede man mano aumentare la pressione fiscale, il tasso di disoccupazione, e soffre un generale impoverimento che sta stremando soprattutto le classe più deboli.
Così la Grecia è un Paese paralizzato, per il secondo giorno consecutivo, da uno sciopero generale: quasi 100.000 persone hanno invaso il 7 novembre la piazza ateniese di Syntagma, davanti al Parlamento, per protestare contro un provvedimento che obbligherà i greci ancora a enormi sacrifici.
Probabilmente “le vittime” delle misure proposte, grazie alla quali la Grecia potrà accedere a un’altra trance di aiuti di 31,5 milioni di euro, saranno ancora salari, pensioni, sussidi e impiegati statali, che perderanno il posto di lavoro.
La Grecia volta pagina”, ha dichiarato il  premier greco Antonis Samaras l’8 novembre, dopo l’approvazione delle misure, mentre il ministro delle Finanze, preoccupato e cosciente delle difficoltà che dovrà affrontare il suo Paese, ha affermato: “Se l'Europa chiede ai greci di compiere il loro dovere, anche noi, approvando il pacchetto delle misure di austerità, ci aspettiamo che a partire da domani l'Europa faccia il suo dovere nei confronti della Grecia”.
Come ogni tema caldo, viene sentito anche sui social network. E’ tutto un ritweet di #grecia e foto, delle immagini delle piazze invase dalla gente, dai lacrimogeni, dalla guerriglia urbana, dalla disperazione. Molti si chiedono quando anche in Italia ci avviliremo a tal punto, da manifestare così numerosi.
Altri si chiedono: “Cari giornali che ci avete ammorbato per mesi sulla storia Berlusconi-Ruby spacciandocela per notizia. Come mai non fiatate sulla Grecia?” oppure: “Grecia, scontri ad Atene contro austerity. Sondaggio: giusto scendere in piazza?”.
E ancora: “#Grecia, 60enne si uccide dopo la sospensione della sua pensione d'invalidità”, o notizie peggiori come: “#Crisi #Grecia, ‘Atene non paga, niente #medicine’. E il gruppo Merck interrompe la fornitura degli anti-tumorali”.
Non è sempre chiaro come sia possibile che, per salvare lo Stato, si affondino i cittadini. Salvare i conti e distruggere il welfare, qualcosa di incredibile, ma sembra sia l’unico modo per salvare la Grecia. Un Paese che in passato ha speso troppo e forse male, e che ora paga i conti.
Concludo con un tweet che fa venire i brividi: “Non siamo nella stessa situazione, dai. Diciamo che la Grecia è un'immagine dal futuro di quello che potremmo diventare.”
Speriamo non sia così.

Luisa Ferrara

giovedì 8 novembre 2012

Marchionne VS Fiom: la storia infinita.


Da Il caffè del 2 novembre 2012.



Soltanto pochi giorni fa, l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne, John Elkann rappresentante della famiglia Agnelli e Mario Monti, si erano riuniti attorno a un tavolo per affrontare il “caso Fiat”. Il grande imprenditore, che alcuni dicono sia ammirato in tutto il mondo come sinonimo di imprenditoria moderna e innovativa, aveva da poco annunciato il fallimento del piano investimento “Fabbrica Italia” lanciato nel 2010, senza però chiarire se la Fiat avesse intenzione di restare comunque in Italia o volesse lasciare il Paese.
Dall’incontro sono venute fuori alcune novità, che confermano il sodalizio infinito e malato tra Stato e Fiat: sembra che l’azienda voglia impegnarsi a salvaguardare la presenza industriale del gruppo in Italia, e dal canto suo, il governo Monti, intende costituire un gruppo di lavoro allo scopo individuare le migliori strategie per favorire l’export nel settore automobilistico.
Sono decenni che lo Stato paga gli errori strategici e imprenditoriali del gruppo Fiat, andandole incontro con sovvenzione dirette o indirette, come ad esempio la cassa integrazione per gli operai. Negli ultimi due anni, a causa della crisi economica, la situazione si è aggravata e Marchionne ha più volte minacciato di spostare la produzione all’estero, dove i costi sono più bassi.
Il problema è che se crolla Fiat, se chiudono stabilimenti come quello di Pomigliano o Mirafiori, è la fine anche per tutte le aziende dell’indotto, che producono per Fiat. Un dramma nazionale, di grande portata, che racchiude in sé tante piccole storie, di lotte operaie, sindacati e trattative.
E’ del 31 ottobre la notizia che Fiat metterà in mobilità 19 lavoratori  nella fabbrica di Pomigliano per poter reintegrare i 19 dipendenti iscritti alla Fiom che hanno presentato ricorso per discriminazione. Forse l’epilogo, o forse un’altra battaglia, della guerra che da anni coinvolge Fiat e Fiom, sindacato considerato “ribelle” e talvolta scomodo, come fu in occasione del referendum sulle condizioni di lavoro che vide contrapporsi Fiom a tutti gli altri sindacati.
Piovono le battute su Twitter: “Di questi tempi ti assumono in fabbrica solo se hai la tessera Fiom”, a sottolineare l’assurdità della situazione. Non sembra concepibile, infatti, che per rispettare un’ordinanza di un giudice, si debba procedere ad altri licenziamenti, considerando anche che per un’azienda di questo tipo, 19 operai non possono rappresentare realmente un problema. “#Marchionne sul Corriere.it ‘non accetto lezioni di #democrazia’. Lui preferisce scatenare una guerra tra poveri”. Qualcun altro si sbilancia: “Fiom Marchionne avanzi del ventennio”.
Colpisce la durezza del Sindaco di Napoli Luigi De Magistris, molto attivo dal lato dei social media, che lapidario scrive su Twitter: “Marchionne è un miope padrone. Soltanto un miope padrone può comportarsi in questo modo, umiliando i lavoratori...”.
Dall’humor quasi un po’ nero, un altro commento: “Se dai il tuo numero a #Marchionne, devi aspettare che muoia un suo amico perché ti faccia spazio nella rubrica del telefono #marpionne”.
Per Giorgio Airaudo, segretario nazionale Fiom, “si tratta di una procedura chiaramente ritorsiva, chiaramente antisindacale e chiaramente illegittima perché i motivi addotti dalla Fiat non giustificano nessun licenziamento, anche in considerazione del fatto che l’azienda ha firmato un accordo nel quale assumeva l’impegno a riassumere tutti i lavoratori del Giambattista Vico in Fabbrica Italia a Pomigliano”.
Voglio concludere, citando un tweet di un famoso rapper italiano, Frankie HI-NRG che scrive: “Ma Marchionne, una passeggiata negli anni '70 no?”. Della serie, non scordiamo i tanto sudati diritti dei lavoratori, per cui, generazioni di persone, hanno lottato. 

Luisa Ferrara

giovedì 1 novembre 2012

I giovani, il lavoro e la Fornero.



L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” afferma la nostra Carta Costituzionale, tanto citata, bistrattata, amata e odiata. La nostra democrazia dovrebbe dunque basarsi sulla dignità che il lavoro promette a ogni singolo uomo per l’impegno dato quotidianamente e atto a migliorare la società e a promuovere il “bene comune”. Parole, parole, parole, dice una famosa canzone. Perché mai come oggi sembra che il lavoro stia perdendo il suo valore fondamentale. Dopo anni di lotte per i diritti dei lavoratori, oggi sembra che sia il “mercato” a governare le nostre vite, e che la possibilità di scelta si sia ridotta drasticamente rispetto alle passate generazioni. Sembra che le generazioni “00” abbiano meno diritti delle precedenti, e che le leggi sul lavoro si siano svuotate della loro importanza (si pensi all’Articolo 18).
Eppure oggi il livello di istruzione medio della popolazione è aumentato. Molti giovani accedono alle università, il lavoro si è specializzato e, talvolta, intellettualizzato. La crisi economica ha lasciato dietro di sé centinaia di disoccupati, e le politiche del lavoro degli ultimi decenni hanno precarizzato un’intera generazione. Come si fa a uscire da questa situazione? Quali sono le proposte? Silenzio. Nemmeno il governo tecnico finora è stato in grado di dare risposte, la priorità è ancora il risanamento del debito pubblico, come se la crescita del nostro Paese rappresentasse un problema secondario. Viene da sé, che senza lavoro, nessuna crescita vera è possibile.
I più penalizzati sono proprio i giovani, sì, quei giovani laureati, specializzati,masterizzati, che escono dalle università italiane pieni zeppi di teoria e hanno enormi difficoltà a incanalarsi in un mercato saturo, avverso, competitivo in modo insano, non sempre basato sul reale merito. Lo stage non retribuito è talvolta l’unica modalità per cominciare a fare un po’ di pratica e non sentirsi dei “pesci fuor d’acqua”. Accettare o non accettare, questo il dilemma? A volte pur di far esperienza nel settore in cui si ha desiderio di entrare e lavorare, si accettano condizioni pessime. Tanti giovani con ottimi titoli di studio sono costretti per mantenersi o comunque per aiutare le famiglie, a fare lavoretti che si spera siano temporanei, ma che talvolta non lo sono. Lavoretti in altri ambiti, lavoretti per i quali non serve una laurea, ma basta il diploma o talvolta anche la terza media. A questo punto ci si chiede perché investire tante forze e soldi per ottenere una laurea se poi “ci si deve accontentare”.
Gli internauti più attenti saranno sicuramente a conoscenza dell’ultima esternazione del Ministro Elsa Fornero, che ha suscitato tanto clamore su Twitter e in generale online: “I giovani non devono essere troppo choosy (in inglese: esigenti, difficili, ndr) nella scelta del posto di lavoro. Lo dico sempre ai miei studenti: è meglio prendere la prima offerta di lavoro che capita e poi, da dentro, guardarsi intorno, non si può più aspettare il posto di lavoro ideale, bisogna mettersi in gioco.”
In brevissimo tempo questa dichiarazione ha suscitato il putiferio: “Non fate i #choosy : se termina la carta igienica, potete usare la laurea che giace nel cassetto”; " ‘I giovani sono #choosy’  ha detto un ministro della repubblica dopo aver ben sistemato tutta la famiglia all'università.”; “Se non hai ambizioni sei un debosciato, se le hai sei #choosy.” E ancora, continuando sulla scia rabbiosa: “Eh, pure voi: vi esce un posto per pulire i cessi alla Termini dopo un master da 10 mila euro? Accetate! Non siate choosy, no? #Fornero”.
Sarcasmo misto a irritazione e sfiducia, questo il quadro dopo aver letto svariati e articoli e dichiarazioni. Allora più che condannare la Fornero, viene da chiedersi: qual è il senso di una dichiarazione di questo tipo? Che tipo di consiglio è? A chi è diretto? Perché fa infervorare i più? Forse perché i giovani che si accontentano sono già tanti, sfiduciati da una società infetta da un nepotismo e da un clientelismo che feriscono gli onesti e i volenterosi. Forse perché la nostra è una società dove l’ambizione non è incentivata e il merito non è premiato.
Accontentarsi del primo impiego può essere una scelta intelligente se poi si ha la certezza e la sicurezza che, lavorando duro, si possa crescere e migliorare. Oltre al fatto che accontentarsi di lavoretti precari e lontani dal proprio ambito non aiuti certo a migliorare il curriculum vitae, che oggi sembra essere la cosa più importante. Il dilemma talvolta è:  guadagnare facendo qualcosa che non piace o fare quello che ci piace senza retribuzione? Forse è di questi problemi che dovrebbe occuparsi un Ministro del Lavoro, invece che dare consigli non richiesti, su basi statistiche non ben chiare.
Riformare l’università, incentivare l’apprendimento di competenze pratiche spendibili nelle professioni, aumentare i livelli di selezione, migliorare le forme contrattuali di stage e tirocinio garantendo agli studenti, ai laureandi e ai neolaureati il diritto a non essere sfruttati. Ma la cosa più importante dovrebbe essere il mettere ordine nelle miriadi di forme contrattuali che precarizzano il lavoro, lo svuotano del suo valore e non danno dignità alle competenze personali e professionali. Il talento va incentivato, così come il sapere, le giovani mente hanno bisogno di supporto e bisogna dire ai giovani che devono lavorare sodo, certo, perché prima o poi il mondo li ripagherà del loro impegno. Steve Jobs diceva: “Siate affamati, siate folli”. 
Una via di mezzo non sarebbe poi male, no?